La trasformazione che ha subìto la scuola negli ultimi 30 anni non è solo il risultato di riforme eclatanti e tagli economici. Spesso è il risultato di scelte, apparentemente insignificanti, che analizzate in modo sistemico assumono una valenza diversa, diventano pezzi di un disegno che si è sviluppato davanti ai nostri occhi: la svolta neoliberista della società italiana.
Un esempio è quello relativo al bacino territoriale di competenza. Negli anni ‘60 per poter iscrivere uno studente occorreva scegliere la scuola territorialmente competente, a meno che non si ottenesse un “nulla osta” da parte del preside che consentisse di iscriversi altrove.
Quella di consentire la libertà di iscrizione fu una battaglia delle sinistre, e aveva anche valide motivazioni, nella scuola degli anni ‘70, quella che aveva contribuito a ricostruire l'Italia nel dopoguerra.
Poi la società italiana è cambiata. La scuola ha smesso di essere un fatto sociale ed è diventata, come tutto, una questione privata. È passata l'idea che anche per migliorare la scuola italiana occorresse “scatenare le forze del mercato”. La libertà di scegliere la scuola più comoda, che un tempo era una possibilità per venire incontro alle esigenze di famiglie e studenti, è diventata il simbolo dell'ideologia liberista all'interno del sistema di istruzione.
Oggi è normale, soprattutto per le secondarie di secondo grado, che le famiglie scelgano la scuola per i propri figli non solo pensando all’indirizzo di studi e agli interessi dello studente, ma sulla base di un astratto concetto di qualità. Mi è capitato di sentire genitori affermare di aver mandato il proprio figlio nella tal scuola perché «È meglio” di quella vicino casa!». Assistiamo ad un fenomeno che 50 anni fa era impensabile: la corsa verso le scuole private, ovviamente in gran parte pagate con i sussidi pubblici, perché “privato è meglio”.
Una serie di fattori fa da contorno a questa libertà delle famiglie: i test INVALSI utilizzati per stilare le classifiche delle scuole; la normativa sul dimensionamento degli istituti scolastici, che porta alla perdita di autonomia amministrativa o addirittura alla chiusura degli istituti con pochi iscritti; il solito tam tam mediatico sulle presunte differenze di merito da premiare ed enfatizzare; il moltiplicarsi di progetti extrascolastici che “arricchiscono l'offerta formativa”, sulla cui qualità, in molti casi, ci sarebbe da ridire; l’abolizione dei Provveditorati agli studi che, a livello provinciale, riuscivano a controllare l'andamento dei singoli istituti e intervenire all'occorrenza.
Tutto ciò ha comportato negli anni un’agguerrita lotta per accaparrarsi “gli utenti” da parte delle istituzioni scolastiche, soprattutto per quanto riguarda il passaggio dalle secondarie di primo grado a quelle di secondo grado. Siamo arrivati all'assurdo: nel 2018 un liceo di Roma venne agli onori delle cronache per aver dichiarato, con inammissibile orgoglio, «Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile».
Ogni scuola spende annualmente soldi - e sottrae tempo alla didattica - per organizzare open-day, visite guidate, produrre dépliant e audiovisivi, esattamente come se si stesse vendendo un prodotto sul mercato.
Secondo il rapporto del Ministero dell’Istruzione per l’anno scolastico 2021-22 in Italia ci sono 2672 istituti secondari. Se facciamo due conti, stimando una media di 5000 euro per scuola, ci accorgiamo che parliamo di una cifra di circa 13 milioni di euro l'anno, soldi che andrebbero meglio spesi.
Ma non è solo una questione di soldi, è proprio una visione ideologica sbagliata e dannosa per il sistema scolastico e per la società intera. Dietro questa “libertà di scelta” si nasconde l’idea che le scuole siano qualitativamente differenti e che quindi sia perfettamente normale che, chi può permetterselo, scelga il meglio.
Eppure nel sistema scolastico italiano i docenti e i dirigenti sono assunti secondo criteri e percorsi sostanzialmente omogenei su tutto il territorio nazionale e seguono le stesse leggi. In ogni scuola la percentuale di docenti giovani rispetto agli esperti, a tempo indeterminato rispetto ai precari, è, statisticamente parlando, assimilabile. E così dovrebbe essere per le stesse strutture, in riferimento a edifici e dotazioni di laboratori. Ciononostante, i genitori sentono il bisogno di mandare i figli “in quell'istituto perché lì insegnano bene e ci sono laboratori bellissimi e fanno tanti progetti”.
La domanda a questo punto è abbastanza imbarazzante: ma se gli istituti sono, o dovrebbero essere, mediamente equivalenti, come è possibile ritenere che certi siano “migliori” di altri?
Ci sono solo due possibili risposte.
Una prima risposta è che il personale delle scuole considerate peggiori non svolge il proprio lavoro in maniera adeguata. In tal caso sarebbe assolutamente ingiustificabile, dal punto di vista del cittadino che paga le tasse, pensare che si continuino a tenere in funzione istituti dove il personale non lavora secondo gli standard minimi previsti dal Ministero.
La soluzione non sarebbe però quella di iscrivere tutti gli studenti nelle “scuole buone”, e lasciare aperte - e semivuote - quelle poco serie. Semmai, visto che si tratta di un servizio pubblico che dovrebbe essere garantito a tutti gli italiani, sarebbe giusto inviare degli ispettori (e qui si paga caro il fatto di aver smantellato negli anni il servizio ispettivo del Ministero dell'Istruzione) a cercare di capire se ci sono dei fannulloni che non fanno il proprio lavoro.
Questa ipotesi mi convince poco: se si analizzano i flussi di iscrizioni è più probabile scoprire che, piuttosto che trovare emorragie di studenti da un istituto a favore di un altro, gli istituti si scambiano gli studenti. Gli unici flussi significativamente sbilanciati sono quelli dalle periferie verso i centri urbani, dai paesi verso le città, ovviamente restando nel raggio di quei pochi chilometri percorribili con i mezzi pubblici.
Un'altra spiegazione, più interessante, è che certe scuole sono meno attraenti per via del contesto sociale in cui operano. È probabile che dopo anni di depotenziamento e tagli alla scuola pubblica, in cui si riesce a malapena a garantire i minimi livelli di prestazione, l'influenza del territorio circostante, e in particolare delle famiglie degli studenti, diventi un decisivo elemento di differenza ai fini del raggiungimento di un'alta qualità di preparazione degli studenti. Detto in altri termini, se il liceo del centro di Milano presenta risultati migliori di quelli del liceo di Quarto Oggiaro, non è perché nel centro di Milano ci sono docenti e dirigenti di altissimo livello mentre nella scuola di Quarto Oggiaro ci sono dei fannulloni incompetenti. La verità è che nel primo caso abbiamo famiglie che possono permettersi di sostenere lezioni private, in cui si leggono molti libri, si attribuisce valore alla cultura, si spende per cinema e teatro, si arriva addirittura a finanziare con contributi spontanei la scuola dei propri figli per dotarla di laboratori all’avanguardia, nell’altro caso abbiamo famiglie a basso reddito che spesso faticano ad arrivare a fine mese, ragazzi lasciati da soli con intorno a loro una periferia spesso problematica e, anche se le famiglie ci tengono a far studiare i loro figli, nella speranza di una emancipazione sociale, di fatto non riescono ad “aiutare la scuola”.
Queste differenze le abbiamo viste chiaramente in occasione della pandemia da Covid, nel momento in cui si è dovuto ricorrere alla DAD.
Se questa è la spiegazione della “fuga dalle scuole cattive” allora si tratta di una situazione allarmante, che indica chiaramente come lo Stato abbia rinunciato a usare la Scuola per aiutare tutti i giovani italiani ad esprimere al meglio le proprie possibilità, come previsto dal secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione.
Questa considerazione ci porta inevitabilmente a constatare come ci sia un nesso sistemico molto forte tra scuola e territorio. Se la scuola è forte, sostenuta, piena di risorse, essa diventa strumento di emancipazione, contribuisce a migliorare il territorio circostante, aiuta a ridurre la distanza fra il centro di Milano e Quarto Oggiaro.
Una conferma a questa ipotesi è che esistono forti differenze, nei risultati dei soliti test INVALSI, fra scuole di una regione ricca come la Lombardia e scuole di una regione più povera, magari meridionale. Ovviamente la colpa non è dei docenti meridionali, visto che anche le prestigiose scuole lombarde sono piene di docenti meridionali.
Una scuola debole è lo specchio della realtà socioeconomica in cui agisce e le tanto decantate magiche virtù del “mercato”, invece di “ripianare le differenze fra gli istituti”, finiscono solo per sancire il fallimento dello Stato nella sua più importante missione: garantire equità nella distribuzione delle risorse. E, d'altra parte, stiamo vedendo su scala mondiale che, in ogni settore in cui opera indisturbata, “la mano invisibile del mercato” non è affatto capace di ripianare differenze quanto semmai di aumentarle. Se non fermiamo questa tendenza si finirà col chiudere tante scuole in intere zone del Paese, magari concentrando le scuole superiori nei capoluoghi di provincia e svuotando i territori più poveri e marginali. O, comunque, lasciando alle zone meno prospere scuole impoverite, senza attrezzature, con docenti demotivati che si presentano in aula solo in vista di un trasferimento in una sede più prestigiosa.
Avremo scuole ghetto nei ghetti delle periferie urbane, scuole povere nelle aree povere del Paese, con buona pace del secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione.
Sarebbe un danno grave per società intera, non solo per gli sfortunati che vivono nelle aree più povere del Paese. Le scuole sono un presidio di legalità e democrazia e contribuiscono a rendere vivi i luoghi. Lo sanno benissimo i sindaci dei piccoli comuni che si battono per evitare le chiusure delle loro scuole primarie o secondarie di primo grado. Avere istituti scolastici anche in posti periferici significa tenere vivo un tessuto sociale ed economico, significa avere giovani che crescono e si formano in realtà in cui altri vedono solo abbandono e miseria. Giovani che magari potrebbero trovare degli stimoli per non andare via, per restare e fare qualcosa lì dove crescono. Rendere vivo un territorio è il primo rimedio alla fuga dei giovani verso l’estero.
Che fare? Impedire le iscrizioni fuori dal bacino territoriale?
Forse potrebbe servire per arginare l’impoverimento di risorse che inevitabilmente colpisce le scuole che vengono abbandonate e, di conseguenza, i loro territori di appartenenza. Ma, oltre a non essere una misura accettabile in uno Stato democratico, essa non può bastare, anzi peggiorerebbe la situazione: non solo non si eliminerebbero le disuguaglianze, ma si creerebbero dei veri e propri ghetti. Questa misura sarebbe forse utile per stabilizzare gli organici, evitare sprechi di risorse e consentire una migliore programmazione dell'offerta scolastica territoriale, ma dovrebbe necessariamente essere accompagnata da interventi di riequilibrio territoriale.
Occorre investire di più nelle scuole dei territori che ne hanno maggiormente bisogno; dare più soldi a quelle scuole che più ne hanno bisogno. Bisogna smettere di utilizzare indicatori come i dati INVALSI per elargire bonus a scuole e docenti “presunti migliori”: è necessario valutare le scuole con un serio sistema ispettivo degno di questo nome, non per premiare degli improbabili “primi della classe”, ma per capire dove e come intervenire. Le scuole e i docenti si valutano per individuare i problemi e risolverli, per elevare la qualità di tutto il sistema scolastico nazionale.
In conclusione, vorrei sottolineare come sia sbagliato pensare di giudicare ogni singolo provvedimento, sia che riguardi la scuola sia che riguardi la società, senza avere una visione sistemica, senza comprendere le connessioni e gli effetti. Questo vale per i test INVALSI, per il dibattito competenze/conoscenze, per l’autonomia scolastica, ecc. Molti di questi temi sono, in fondo, solo strumenti che, se agiti in un contesto di relazioni differenti, avrebbero potuto portare a esiti diversi, ma vale anche per la Sanità, vale per i Trasporti pubblici, vale per tutti quei servizi che hanno fatto grande il nostro Paese, che lo hanno portato ad essere la quinta potenza industriale del mondo.
Ovviamente questo significa fare investimenti, e quindi significa reperire risorse, magari tramite una diversa politica fiscale. Ma si sa, in questo Paese sembra che parlare di lotta all’evasione, imposta patrimoniale, progressività fiscale, equivalga a dire delle bestemmie. Eppure sarebbe il modo più equo per trovare il denaro necessario senza ipotecare il futuro delle nuove generazioni con dei debiti impossibili da ripagare e restituendo a tutti un Paese più civile.